Camilleri e Tiresia. Del vedere a occhi chiusi. Riflessioni sulla storia dell’arte
di Carmelo Occhipinti
11 giugno 2018. Esordio in teatro di un novantaduenne meraviglioso e cieco. Andrea Camilleri interpretava allora, nel Teatro greco di Siracusa, il monologo Conversazioni su Tiresia. Impersonando l’indovino tebano, cieco pure lui, lo scrittore siciliano invitava tutti noi a riflettere sulla ‘cecità’ dei nostri occhi, che vedono sì, ma che meglio vedrebbero se li chiudessimo: «Ebbene devo dirvi – e non vi sembri un paradosso, per carità! – che da quando io non ci vedo più, vedo le cose assai più chiaramente»[1].
«Il nostro sguardo è limitato», spiegava Camilleri in occasione di una sua memorabile intervista televisiva andata in onda il 28 ottobre scorso: «Se lei mi fa vedere tutto il mondo, io il mondo non lo vedo più. Vedo una gran confusione, ma non vedo… Una cosa è guardare. Una cosa è vedere. Vedere significa impegnare non solo gli occhi ma tutti i nostri sensi, tutto noi stessi. Noi non guardiamo un quadro qualsiasi di un grande artista, da Kandinsky a Piero della Francesca. […] Bisogna proprio, veramente, entrare dentro, non solo con gli occhi, ma con tutto noi stessi».
Parola di Camilleri.
In altri termini, la forza del nostro sguardo risiede nella sua stessa limitatezza. Se perdiamo il senso del nostro limite, la consapevolezza cioè della distanza da cui rivolgiamo il nostro sguardo sul mondo, altro non ci troveremo davanti che l’immenso caos. Come quando, per esempio, adoperiamo gli strumenti sofisticatissimi della tecnologia digitale, che ci fanno credere di vedere tutto e meglio.
Ora non sembri anche questo un paradosso, se affermo che pure noi storici dell’arte, che per esercitare il nostro mestiere abbiamo la necessità di tenere gli occhi aperti, forse ci vedremmo meglio se li chiudessimo, talvolta, i nostri occhi.
È Camilleri a chiamarci in causa, nel passo che ho appena citato.
Vero che tendiamo, noi storici dell’arte, a mettere sullo stesso piano cose tra di loro diversissime, come sono Kandinsky e Piero della Francesca, per poterle situare lungo il percorso secolare della storia della pittura. Ma così il nostro acume ‘scientifico’ rischia di farci perdere qualcosa: come quel senso di concretezza fisica che appartiene tanto alle opere di Kandinsky, quanto a quelle di Piero della Francesca, che riduciamo invero alla superficiale parvenza visiva, staccandole dalla loro realtà fisica appunto per il fatto di guardarle con i soli nostri occhi, piuttosto che con tutti gli altri sensi. In un certo senso, pure senza accorgercene, tendiamo a guardare le opere di Piero della Francesca con gli occhi di Kandinsky.
Questo spiega come mai Camilleri abbia – involontariamente – invertito la direzione storica: da «Kandinsky a Piero della Francesca».
Del vedere al buio
D’altra parte, questo tema degli occhi che vedono tutto ma non vedono niente si lega all’altro tema della vista interiore, che meglio funziona quando le luci si spengono, e cala l’oscurità.
In altra occasione, il 12 giugno del 2018, lo stesso Camilleri dichiarava di aver deciso di impersonare Tiresia per il semplice fatto di sentire «la voglia di pronunziare certe parole nel buio»: «la voglia di far risuonare il suono delle parole di Tiresia, e anche i versi di Eliot, nel buio della cecità. Nel mio testo c’è un momento in cui cito Borges e dico che le parole di Sofocle ascoltate nel buio della cecità acquistano il suono della verità assoluta. Insomma, ho scelto Tiresia d’impeto. Quando mi è stato chiesto che personaggio avrei voluto fare a Siracusa, me lo sono subito sentito dentro, forse perché al punto in cui sono arrivato mi piacerebbe avere una idea più precisa dell’eternità. A 93 anni, hai certezza del fatto che l’eternità ti stia venendo incontro, qualunque essa sia, e qualunque forma essa abbia»[2].
Tema antichissimo, quello del buio che rende più potente la nostra vista interiore. A me vengono in mente – perché me ne sono occupato da poco – le eruditissime disquisizioni filosofiche che si facevano nella Roma del XVI secolo, quando regnava papa Pio IV, tra i sodali del convivio delle Notti Vaticane: usavano riunirsi di notte, alla presenza di San Carlo Borromeo, perché secondo loro di notte, al buio, gli occhi della mente vedono ciò che alla luce gli occhi del corpo non riescono a vedere. I nostri ricordi infatti, gli eventi storici, i sogni, le fantasie, i pensieri più astratti è come se prendessero meglio forma dopo che chiudiamo gli occhi. In questo senso i sodali delle Notti Vaticane si erano convinti che la poesia avesse un potere di gran lunga superiore rispetto alla pittura, perché più potente era, secondo loro, la vista dell’animo piuttosto che quella, superficiale, del corpo.
Analoghe convinzioni sarebbero state di lì a poco condivise dai mistici di secondo Cinquecento: negli Esercizi spiritualidi Sant’Ignazio di Loyola, nell’autobiografia di Santa Teresa d’Avila, nella Notte oscura di San Giovanni della Croce, troviamo svariate riflessioni riguardo alle potenziate capacità percettive che gli uomini scoprono di avere quando si trovano immersi nel buio, come quando le opere d’arte vengono viste al lume di una candela: perché allora gli occhi della mente, insieme a quelli del corpo, riescono meglio a entrare nelle cose, per intrattenere con esse un rapporto di vera e propria intimità fisica.
Niente di diverso, in sostanza, da quanto Camilleri aveva inteso dirci impersonando l’indovino tebano nel teatro di Siracusa.
Del vedere a occhi chiusi
Già tra gli antichi Greci girava l’idea che a occhi chiusi si vedessero cose che a occhi aperti ci sfuggono. A detta di Plutarco, il filosofo Democrito era giunto a togliersi la vista per cercare ciò che gli occhi del corpo, distolti da mille tentazioni, non gli permettevano di vedere. Omero, che era cieco, vedeva più profondamente di qualsivoglia altro poeta. E, grazie all’acquisita cecità, lo stesso Tiresia riusciva, per ispirazione divina, a vedere il futuro.
Anche nel mondo romano girava la stessa idea, che la vista ‘interiore’ fosse più profonda di quella, per così dire, dei nostri occhi ‘esteriori’. Plinio il Vecchio riteneva che la meditazione rendesse gli uomini simili ai ciechi, capaci come sono di vedere con occhi ‘interiori’, diceva lui: con gli occhi dell’animo[3]. Nello stesso senso, il tema oraziano dell’ut pictura poësis era riferito alla capacità – comune a pittori e poeti – di vedere cose che normalmente gli uomini non vedono, oppure che vedono soltanto in sogno, a occhi chiusi, in forza di una loro vista ‘interiore’: come leggiamo nell’Ars poetica,«il pittore può farci vedere una testa d’uomo unita a un collo di cavallo, con il corpo ricoperto di piume variopinte», e via dicendo. Filostrato il Giovane, poi, non mancava di elogiare la capacità dei pittori, non inferiore a quella dei poeti drammatici, di far vedere agli uomini le cose astratte, i sentimenti e le emozioni, oltre alle creature che l’immaginazione, da lui definita col termine greco «fantasia», è in grado di partorire[4].
Per questo motivo, in considerazione della capacità immaginativa che accomuna pittori e letterati, l’opera dei più valenti poeti è da sempre messa a confronto con l’opera dei pittori. Luciano di Samosata, infatti, non esitava a definire Omero, per quanto cieco, come «il migliore dei pittori», pure a confronto con Eufranore e Apelle, che veramente erano pittori. Più di mille anni più tardi a ribadire questa stessa idea sarebbe stato Petrarca, che vedeva in Omero il «primo pittor de le memorie antiche». E nel XVI secolo – per fare uno degli infiniti esempi possibili – messer Lodovico Dolce, umanista e scrittore d’arte veneziano, avrebbe elogiato l’opera dei letterati e degli storici alla stregua di quella dei pittori, dal momento che sia i letterati che gli storici hanno sempre cercato di farci vedere con gli occhi dell’immaginazione tutte quelle cose che i pittori, invece, sanno rendere visibili agli occhi del corpo[5].
Alcuni eventi contemporanei
Quanto siano attuali le questioni ‘antiche’ su cui Camilleri ci ha indotti così a ragionare, lo dimostrano i fatti su cui vorrei adesso soffermarmi.
Andiamo sulle pagine introduttive del catalogo della 55a esposizione internazionale d’arte contemporanea della Biennale di Venezia, che era intitolata Il Palazzo Enciclopedico (2013). Il curatore, Massimiliano Gioni vi spiegava di aver organizzato l’intera mostra incentrandola sugli effetti del «vedere a occhi chiusi»: cosa ci fanno ‘vedere’ le immagini, si chiedeva, dopo che le abbiamo viste, quando cioè, dopo averle viste, proviamo a chiudere gli occhi? Secondo la nostra cultura, secondo i nostri gusti – era questo, in sostanza, il ragionamento di Gioni – le immagini che guardiamo hanno il potere di destare dentro di noi il ricordo di altre immagini: un’infinità di immagini che si risvegliano dentro il nostro personale ‘museo’ della memoria, che sono immagini di cose, di persone, di luoghi vicini e lontani, nel tempo o nello spazio. Facile capire, leggendo queste cose, come mai gli scritti di Aby Warburg o di Walter Benjamin siano oggi ritornati, a distanza di circa un secolo dacché furono pubblicati, di così viva attualità: chi legge Il Palazzo Enciclopedicoincontra a ogni piè sospinto Warburg e Benjamin, per i quali il tema della forza memorativa che le immagini ci destano era stato così centrale.
Naturalmente l’idea lanciata dalla Biennale del ’13 doveva conoscere una certa risonanza pure tra gli studiosi di storia artistica. Pensiamo alla grande mostra con cui la città di Ferrara celebrava, nel 2016, il cinquecentenario dell’Orlando Furioso di Ariosto; il titolo che era stato scelto suonava così: Orlando furioso 500 anni. Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi. «Quali immagini affollavano la sua mente mentre componeva il poema che ha segnato il Rinascimento italiano? Quali opere d’arte alimentarono il suo immaginario?», erano le domande cui la mostra si proponeva di dare risposta.
Proprio contemporaneamente all’evento estense, in occasione dell’ultima Quadriennale d’arte di Roma svoltasi tra il 2016 e il 2017, una delle sezioni della mostra, quella curata da Luca Lo Pinto, aveva questo titolo: «Ad occhi chiusi gli occhi sono straordinariamente aperti». L’intenzione era di rendere omaggio a Marisa Merz, in particolare ad una sua lontana esposizione, risalente al 1975, alla Galleria L’Attico di Roma: «gli occhi chiusi non sono di un cieco» – le parole sono citate dalla monografia che, nello stesso 1975, Tommaso Trini dedicò alla Merz –, «ma piuttosto velano il sogno e la meditazione». Niente di nuovo, in sostanza, rispetto al tempo degli antichi Greci e dei Romani! Allora, le opere in mostra al piano terreno di Palazzo delle Esposizioni dovevano sollecitare la nostra riflessione «sullo sguardo, sull’interpretazione, sul trauma dell’opera d’arte, sulla parzialità della Storia, sulla memoria individuale e collettiva, su come guardiamo alle cose e come le cose guardano a noi in un rapporto dialogico».
Poco dopo, all’inizio di settembre del 2017, io stesso curavo l’esposizione dei quadri tattili di Alessandro Marianantoni, presentati a Palazzo Braschi a Roma, nella mostra dal titolo Contatto. Sentire la pittura con le mani: in quella occasione facevamo bendare i visitatori, esattamente come quasi un secolo fa Filippo Tommaso Marinetti aveva prescritto di fare sui cosiddetti «quadri tattili», di cui leggiamo nel famoso manifesto del Tattilismo (1921).
Analoghe considerazioni mi venivano contemporaneamente suggerite dalle opere stupende realizzate in questi ultimi anni da uno dei più apprezzati illustratori de La lettura del Corriere della Sera: Antonello Silverini, che nient’altro si propone se non di farci vedere nelle sue opere ciò che i nostri occhi vedono quando li chiudiamo. In un piccolo lavoro monografico che gli dedicavo nel 2017, commentavo l’immagine di copertina da lui composta per l’edizione italiana del romanzo L’occhio nel cielo (2012) di Philip K. Dick: vi si vede una specie di mago che – come nel Théâtre de poche (2007) di Aurélien Froment – ‘racconta’ visivamente una storia, per così dire, servendosi di vecchie fotografie e oggetti casuali, attaccati dentro la fodera della propria giacca che, aperta davanti a noi, diventa una pagina di Mnemosyne di Warburg; allora i nostri occhi ‘vedono’ ciò che gli oggetti riescono a raccontarci, perché la nostra vista ha il potere di unirli gli uni agli altri, tutti quegli oggetti, collegandoli direttamente con la nostra anima. Credo che Camilleri intendesse proprio questo, quando diceva che dovremmo saper vedere le cose «con tutto noi stessi».
Riflessioni molto simili a quelle di Camilleri avevo già creduto di ricavare alla lettura della raccolta di scritti dell’immenso Wim Wenders, I pixel di Cézanne uscita nello stesso 2017 pure in edizione italiana. «Abbiamo disimparato», avvertiva il regista, «come possa essere complesso il vedere, che per noi è diventato il più delle volte solo un primo sguardo (spesso non abbiamo altra scelta)». In particolare, Wenders richiamava così la nostra attenzione sulla pittura grandiosamente silenziosa del pittore americano Andrew Wyeth, che con i suoi quadri non faceva che insegnarci a usare «il secondo e il terzo sguardo». «Considerate tutta la responsabilità/ che risiede nell’atto del vedere!/» – le parole sono di Wenders – «Guardate che piacere dà scavare più a fondo./ Constatate quanto valga la pena/ recarsi al cospetto di una persona, di un oggetto o di un paesaggio»[6]. Ebbene il «terzo sguardo» è lo sguardo più profondo, quello dei nostri occhi interiori che devono saper vedere anche al buio: quello che attinge alla memoria, alla cultura, alle nostre esperienze, alle nostre letture, all’ambiente nel quale siamo immersi. È lo sguardo che sa trovare i significati profondi delle cose che vediamo, cercandovi il rispecchiamento di noi stessi, le radici della nostra storia, la nostra identità. In effetti, abituati a modalità moderne di visione sempre più rapida e, spesso, superficiale – come nel caso delle immagini digitalizzate –, ci stiamo dimenticando delle enormi potenzialità del senso della vista. Ci stiamo dimenticando come l’atto di vedere possa arricchirsi di esperienze sensoriali diversissime, anzitutto tattili, in considerazione della fisicità che appartiene a qualsivoglia oggetto. Ci stiamo dimenticando come un secolo fa i grandi maestri dell’astrattismo andassero insegnandoci che l’invisibile può diventare visibile: oggi, invece, quasi non siamo più capaci di vedere il visibile. La nostra vista è talmente annebbiata da tanta frenesia della vita presente, da tutto il luridume che sommerge la città Città Eterna nella quale viviamo, che non riusciamo più a vedere – ci ammoniva così William Kentridge – la nostra stessa storia, scritta tutt’intorno a noi: che è una storia fatta di trionfi, se ce ne fossimo scordati, non solo di lamenti!
Il guaio è che, per effetto di tanto specialismo che affligge l’Accademia, pure tra gli studiosi di storia artistica la capacità di ‘vedere’ sembra essersi gravemente limitata (come Camilleri sembrava volerci ammonire): in effetti, viste sotto l’occhio scientifico dell’indagine disciplinare e staccate, così, dai più svariati contesti di vita perduta, le opere d’arte provenienti dal passato rischiano di apparire come dei ‘reperti’ morti (da quanto tempo, infatti, si parla di «morte dell’arte», di «morte della storia dell’arte»!) Sarebbe invece auspicabile che in forza di una nostra vista ‘interiore’ noi studiosi di storia artistica provassimo a figurarci, attorno alle stesse opere d’arte, la perduta dimensione di vita, di cultura, di fede, di politica, insieme a tutto quanto la moderna nozione di patrimonio ‘immateriale’ possa suggerirci («le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how», eccetera, eccetera, come recitava la dichiarazione Unesco del 2003).
Dicendo questo, tuttavia, non intendo che debba sminuirsi lo sguardo di chi, come lo specialista di storia dell’arte, sappia creare una distanza ‘scientifica’ tra noi e le cose. Serve, infatti, anche lo sguardo dello specialista. Ma serve pure lo sguardo di chi non studia l’arte: perché, come diceva Diderot, l’arte è di tutti, anche di chi non la studia. Le opere d’arte del passato vivono attraverso lo sguardo di ciascuno di noi: vivono nella loro capacità di agire su di noi, per rinnovarci, per farci riconciliare col passato da cui proveniamo, mentre la ‘rivoluzione’ culturale che è in atto sta finendo di sconvolgere il nostro presente.
[1] Camilleri 2019, p. 3.
[2] In tervista rilasciasta a Roberto Andò per l’Espresso del 12 giugno 2018 (Camilleri: «La cecità mi ha reso libero. Non devo più vedere la mia faccia da imbecille»)
[3] «Animo autem videmus, animo cernimus: oculi ceu vasa quaedam visibilem eius partem accipiunt atque tramittunt. Sic magna cogitatio obcaecat adducto intus visu» (Nat. hist. 11, 146).
[4] Filostrato il Giovane, Imagines, Proemium, 390k. Cfr. Lee 2011, p. 21 e nota 21.
[5] Lee 2011, p. 14.
[6] Wenders 2017, p. 176.
Apprezzabilissimo e coinvolgente per l’originalità del tema scelto e per la ricchezza dei riferimenti bibliografici dal mondo antico all’attualita’.