In ricordo del ‘paragone’: il 27 marzo 2020, sul sagrato di San Pietro in Vaticano
di Carmelo Occhipinti
Un’immagine come questa non sarebbe stata neppure lontanamente concepibile prima del momento che stiamo vivendo. Il pontefice officia da solo sul sagrato di San Pietro, davanti ad una piazza che vediamo sprofondare nella più agghiacciante desolazione, sotto il cielo torbido dell’imbrunire. Insieme a lui soltanto monsignor Marini, maestro delle cerimonie pontificie. Nessun altro, ma proprio nessuno, tra le braccia da sempre accoglienti del colonnato berniniano. Immagine tenebrosa. Spettrale. Aberrante. Che lascerà un segno profondissimo nella nostra memoria storica.
Ma come era stato annunciato dalla Sala Stampa della Santa Sede, per ottenere l’indulgenza plenaria insieme alla benedizione apostolica nella forma tradizionalmente stabilita dalla Chiesa bastava, diciamo così, essere ‘connessi’: in grazia delle più moderne tecnologie di comunicazione che ora ci uniscono permettendoci di ritrovarci ovunque virtualmente presenti, eccoci dunque tutti insieme in piazza San Pietro, davanti al papa! Uniti ancor più nella consapevolezza di trovarci su di un crinale storico di dimensioni inimmaginabili.
Rimpianti, ma non troppi
Attenzione, però. Le circostanze in cui, appena una settimana fa, tale evento si è svolto ci fanno adesso rimpiangere amaramente alcune delle libertà che noi stessi, negli ultimi tempi, avevamo tenuto in così poco conto, talvolta rinunciandovi senza grandi sofferenze, mentre ci lasciavamo sedurre da questa stessa tecnologia digitale che ora ci fa sentire così uniti, ma che in realtà – santo Cielo! – non ha fatto che alienarci, allontanandoci gli uni dagli altri, isolandoci, strappandoci dalle nostre radici storiche, disumanizzandoci, incattivendoci.
Per esempio rimpiangiamo la libertà di entrare in chiesa, anche solo per visitare una cappella, per vedere un dipinto, una statua, una famosa opera d’arte. Chi da anni non va in chiesa per la Domenica delle Palme, o per Pasqua, probabilmente ora rimpiange di non poterci andare.
Così rimpiangiamo la libertà di entrare in un museo per far visita a un artista che ci piace: ma, ormai, nei musei quasi non sentivamo neppure la necessità di andare, perché tanto su Google troviamo tutti gli artisti che vogliamo, tutte le opere provenienti da tutte le epoche e dagli angoli più remoti del mondo, potendone godere dal divano di casa muovendo un solo dito. Ci eravamo convinti, davvero, che la storia fosse questo piacevolissimo, sconfinato panorama da guardare da lontano, dal di fuori, quasi che noi non ne facessimo parte: come se dal passato non avessimo più niente da imparare, tanto moderni ed evoluti ci siamo finora sentiti. Ma quanto l’abbiamo disprezzato, fino a ieri, lo studio della storia!
Rimpiangiamo, ancora, la libertà di andare al cinema. Dove però, ormai, quasi nessuno andava perché tanto i film si possono scaricare, più o meno disonestamente, da internet. Chi se ne importa, poi, se le piattaforme digitali stanno facendo chiudere un’infinità di sale cinematografiche! E se il cinema, per colpa nostra, muore!
Rimpiangiamo, alcuni di noi, la libertà di andare a studiare in biblioteca, dove in verità negli ultimi tempi di gente se ne vedeva sempre di meno. Giacché tutto, o quasi, si riesce a trovare on line. Insomma, lo sappiamo benissimo che tanti nostri modi di vita erano cambiati già da tempo…
Ma specialmente rimpiangiamo, ora, la libertà di stringere la mano a un amico, di abbracciare un nostro caro, di incontrare colleghi e conoscenti, di passeggiare la sera in riva al mare; persino di unirci nel dolore per le esequie di una persona che abbiamo perso. Rimpiangiamo la libertà di vivere concretamente i rapporti sociali nelle città, nelle piazze, per i viali, per i vicoli che serpeggiano lungo i nostri borghi, per le campagne dove fin da bambini andavamo a divertirci, scorrazzando come animaletti di fronte al paesaggio meraviglioso su cui riconoscevamo i nostri ricordi dipinti fin sulle colline, sui tronchi degli alberi, sui casolari abbandonati. Per non dire degli antichi monumenti che stanno lì, da sempre, a ricordarci chi siamo, a richiamarci la storia da cui veniamo. Ecco come rimpiangiamo il paesaggio che tanto abbiamo disprezzato, e devastato, in nome della nostra smisurata fiducia nel progresso economico, nell’innovazione, nel futuro.
27 marzo 2020. Simboli e significati
Cerchiamo ora di capire cosa abbiamo visto, cosa c’era dietro i simboli, dietro i gesti compiuti da papa Francesco mentre il mondo intero, virtualmente presente, lo guardava di fronte ad una platea petrina tutta azzurra, tristissima di pioggia come appariva quel giorno memorabile del 27 marzo.
Ebbene, a un certo punto lo abbiamo visto, il papa, incamminarsi deciso, un po’ claudicante com’è lui, verso due oggetti antichissimi che per la circostanza erano stati prelevati da altrove per essere simbolicamente collocati proprio lì, sul sagrato di San Pietro, ai lati della porta centrale, spalancata fino a mostrare, in fondo, il baldacchino berniniano: da una parte, a destra, la santa icona della Salus Populi Romani, fatta venire dalla Basilica di Santa Maria Maggiore; dall’altra parte, a sinistra, il crocifisso miracoloso di San Marcello al Corso.
Ecco. Abbiamo visto il papa avvicinarsi prima all’icona mariana, per contemplarla silenziosamente, per allungare il braccio fino a toccarne con affettuosa tenerezza la superficie, poggiando le proprie dita sul vetro protettivo onde ricevere i benefici effluvi della sacra icona. Subito dopo, abbiamo visto il papa andare verso il crocifisso, fermandovisi davanti per guardarlo da vicino, dal basso, per rivolgergli una preghiera e infine, con molta umiltà, baciargli i piedi.
Ora, veder toccare questi antichi oggetti dal papa mentre, in questo modo, compiva gesti antichi ha contribuito a ridestare in tutti noi la memoria di secoli lontanissimi, che mai ci saremmo sognati di rivivere nel presente. Abbiamo visto ritornare a galla il passato dalle cui oscure profondità ci eravamo dimenticati di provenire noi stessi. La storia, della quale pensavano di poter fare a meno, accecati dal miraggio della rivoluzione moderna, ha reclamato la nostra attenzione per ricordarci che il passato e il presente – che l’uomo razionale ha voluto nettamente separare – sono la stessa cosa. E che noi siamo il nostro passato.
Il ‘paragone’ tra le arti ‘sorelle’, pittura e scultura
Vorrei a questo punto notare una cosa che mi pare di massima importanza. I due antichi oggetti che per l’occasione erano stati portati in Vaticano perché il papa li potesse toccare e baciare, non sono stati scelti a caso (tanto più perché verso di essi papa Francesco aveva già in precedenza manifestato una propria, specialissima devozione): ma non era un caso, voglio dire, che uno di questi oggetti fosse dipinto, l’altro scolpito. Non era un caso, cioè, che le due ‘arti sorelle’, pittura e scultura, fossero state coinvolte in un evento di così rilevante importanza mediatica, in considerazione del ruolo che entrambe hanno rivestito nella storia umana: o, dovrei dir meglio, nella storia cristiana, nella storia della ‘nostra’ moderna civiltà le cui radici sono – abbiamo preferito dimenticarcene – profondamente cristiane.
Tanto l’icona mariana, quanto il crocifisso ligneo rappresentano in egual misura la millenaria tradizione della Chiesa: fin dal preciso momento in cui, cioè, la Chiesa scelse di ammettere nel culto le immagini, sia quelle dipinte che quelle scolpite. Scelta che non fu per niente facile, dopo le accesissime controversie teologiche consumatesi in seno ai primi concili ecumenici, quando per la prima volta furono discusse le diverse valenze delle immagini dipinte e di quelle scolpite, in ragione della loro diversa capacità di destare atteggiamenti di idolatria, nonché dei rispettivi livelli di resa mimetica, del diverso senso di corporeità, di presenza fisica di un’immagine piatta a confronto con una tridimensionale. Non dobbiamo infatti dimenticarci come i primi cristiani – al tempo in cui erano freschi i ricordi del paganesimo imperiale – non ammettessero le immagini nel culto: solo quando la Chiesa, fattasi depositaria dell’immensa eredità culturale del mondo pagano, cominciò ad appacificarsi persino con i monumenti dell’arte greco-romana, solo allora i Padri della Chiesa consentirono alle figure dipinte e a quelle scolpite di entrare nella nostra storia, diventandone protagoniste. Da una tale scelta sarebbe scaturita la nostra storia. La storia della civiltà europea.
Non dobbiamo d’altronde dimenticarci come il mondo ebraico avesse da sempre rifiutato le immagini, perché direttamente proibite da Dio («Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra (Deuteronomio 5, 8-9)»). E come il mondo bizantino addirittura dichiarasse guerra alle immagini, per arrivare ad ammettere nel culto, alla fine, solo le sante icone, rifiutando le figure tridimensionali perché troppo ‘vive’, in un certo senso troppo ‘fisiche’. Infine, come il mondo islamico, vietata la rappresentazione di Dio nonché di ogni volto umano, giungesse a rifiutare l’arte propriamente figurativa.
Da noi, invece, il tema delle immagini è sempre stato centralissimo, a partire da quelle discussioni teologiche promosse dagli Apologeti e dai Padri della Chiesa, fino ad arrivare, molti secoli dopo, a Leonardo da Vinci il quale a sua volta inaugurò, col suo Trattato della pittura, gli intensi dibattiti teorici sul ‘paragone’ tra la pittura e la scultura: ovvero sui diversi procedimenti espressivi, sulle diverse specificità della fruizione tattile e di quella visiva, in rapporto ai contesti, alle funzioni, nonché in rapporto ai modi di vedere che cambiano di continuo. Specialmente in anni di Controriforma, in risposta alla Riforma luterana che aveva scatenato ferocissime ondate di iconoclasta anticattolica, la questione del ‘paragone’ divenne più che mai attuale: fu allora che la Chiesa riconfermò quell’antica scelta di rendere le immagini, sia quelle dipinte che quelle scolpite, le protagoniste della nostra storia. Ne seguì la civiltà figurativa del nostro Barocco, fondatasi sul riconoscimento dell’enorme potere comunicativo delle immagini, sia dipinte che scolpite, ovvero delle rispettive capacità di coinvolgimento emotivo degli spettatori (mi sembra che una delle fotografie scattate il 27 marzo sul sagrato di San Pietro, dove vediamo insieme all’icona mariana e al crocifisso quattrocentesco, in fondo alla navata della Basilica, il Baldacchino berniniano con la retrostante Cattedra sorretta dai quattro Dottori della Chiesa, sintetizzi efficacemente l’intero percorso storico cui mi sono appena riferito).
Ne seguì anche l’idea, tutta nostra, che le arti figurative potessero essere intese come espressione di un’epoca: idea che ha fatto nascere, da noi prima che altrove, l’interesse per ciò che avremmo chiamato storia dell’arte. In età moderna, infatti, siamo stati noi – noi Italiani, voglio dire – a inventarci la storiografia artistica, nei cui ambiti di interesse abbiamo pensato di includere, insieme alla pittura e alla scultura, anche l’architettura, che sono, tutte e tre, le arti del disegno: cosicché potesse raccontarsi la storia dell’arte pure di quei popoli che scelsero l’aniconismo.
La digitalizzazione del patrimonio e la fine del ‘paragone’
Ma veniamo al punto. L’abitudine alla fruizione digitale delle immagini dipinte e di quelle scolpite ha contribuito, in larga misura, alla nostra progressiva perdita di identità storica, diseducandoci alla ‘visione’, allontanandoci dalla reale concretezza tattile delle opere d’arte.
Alla fine, mi sembra che la rivoluzione digitale possa essere intesa come un gigantesco trionfo delle istanze ‘purovisibilistiche’ già a suo tempo fatte proprie dai movimenti d’avanguardia i quali, lo sappiamo bene, iniziarono a rivendicare l’assoluta autonomia del linguaggio visivo rispetto a tutti gli altri linguaggi (i linguaggi della parola, del movimento, del suono). Di fatto, la tecnologia digitale ha ridotto le pitture e le sculture a pura forma, diciamo così, astraendole dalla realtà concreta, privandole della sostanza materiale. Sicché le figure dipinte e quelle scolpite, già solo perché immesse nell’etere, finiscono generalmente per svuotarsi di quell’enorme potere che un tempo derivava loro dal fatto di avere un ‘corpo’, ovvero da quella misteriosa dimensione – chiamiamola pure ‘aura’ – che tutt’intorno a quel corpo si creava. Le immagini digitali, fruibili attraverso lo schermo di un nostro computer, hanno in un certo senso ‘equiparato’ la scultura alla pittura, che da sempre avevamo visto, per quanto ‘sorelle’, teoricamente, sostanzialmente ‘diverse’.
Per di più, allentandosi l’antichissima alleanza tra la vista e il tatto, sbilanciatasi tutta a favore della vista, abbiamo finito per dimenticarci completamente che la storia dell’arte è stata prima di tutto storia di ‘corpi’ concretamente tangibili, che hanno interagito con gli uomini nei luoghi e negli spazi sociali più diversi. Ci siamo dimenticati di avere noi stessi un corpo, quindi di essere perituri, vulnerabili, fragili.
Le tecnologie digitali rischiano così di diventare – giacché finora non abbiamo saputo servircene adeguatamente neppure nelle scuole – un potentissimo strumento di diseducazione.
Conclusioni
Così pregni di senso storico, i gesti compiuti dal pontefice volevano in definitiva ricordarci, fra l’altro, queste cose: anzitutto, che i dipinti e le statue posseggono un ‘corpo’. Che le due arti ‘sorelle’, proprio perché ‘diverse’ l’una dall’altra, rappresentano in certo qual modo, nella loro diversità, la nostra storia. Che le figure dipinte, non diversamente dalle figure scolpite, sono fedeli testimoni del nostro passato, passato che in un certo senso hanno ‘visto’ coi loro stessi occhi. Insomma, che le immagini antiche ci conoscono. Sanno da dove veniamo, chi siamo. Noi, invece, non lo sappiamo più.
Eppure, ci eravamo convinti di poter dominare la storia, di avere in pugno l’intero scibile umano. Avevamo creduto di poter vivere un presente senza tempo, sbarazzandoci del passato per inseguire più velocemente il futuro: solo che, così, abbiamo calpestato i valori della storia, della tradizione, dell’umanesimo, chiudendoci di conseguenza al confronto tra saperi e culture diverse, tanto più se provenienti da epoche remote, da civiltà altre.
Ci eravamo illusi che ‘innovare’ e ‘digitalizzare’ significassero la stessa cosa (in quale mostruoso equivoco eravamo caduti, negli ultimi anni!). Rinnegando così l’umanesimo, abbiamo con arroganza creduto di poterci inventare un nuovo umanesimo, tutto nostro, tutto digitale, senza storia né futuro, poveri noi! In preda all’euforia digitale degli ultimi decenni abbiamo provocato sfaceli mondiali, disumanizzandoci, incattivendoci, imbarbarendoci: percependo l’altro come nemico, piuttosto che come risorsa. Credevamo di avere il mondo intero ai nostri piedi, potendone percorrere i cieli in lungo e in largo, mentre la gran parte della popolazione del pianeta pativa la fame. Ma quale torre di Babele avevamo cercato di costruire! Ce ne accorgiamo solo ora che la vediamo crollata: scoprendoci sempre più incapaci, ormai, di confrontarci gli uni con gli altri, incapaci persino di usare la nostra stessa lingua per parlare e per scrivere, dato che non leggiamo più, non pensiamo più, né ci avvediamo, perciò, della nostra misera piccolezza a confronto con la grandezza di tanti uomini, scrittori, pensatori e artisti vissuti prima di noi.
Dalla cerimonia in San Pietro alle più dotte considerazioni sulla storia dell’arte e dell’umanita’. Grazie!
Dalla cerimonia in S. Pietro alle più dotte considerazioni sulla storia dell’arte e dell’umanità. Grazie. Arturo e Rossella.