Scienza, umanesimo e futuro. Quale sarà il ruolo degli umanisti?
di Carmelo Occhipinti
Gli scienziati, chimici, fisici, informatici, ingegneri, biologi stanno mettendo a disposizione degli umanisti strumenti di indagine tecnologica sempre più avanzati che, nei confronti del settore dei beni culturali, spalancano prospettive straordinariamente vaste e seducenti, talvolta davvero stupefacenti!
Perciò sempre più necessarie diventano le occasioni di incontro e di dialogo, come quella che all’università di Roma “Tor Vergata” si è svolta, il 29 maggio 2020, sul tema de «Le Scienze e il Museo: Archeologia, Ingegneria, Chimica in un approccio interdisciplinare per fruire i Beni Culturali nello spazio Museo che li conserva», a cura di Federica Bertini (Dipartimento di Studi Letterari, filosofici e di storia dell’arte) e Federica Valentini (Dipartimento di Scienze e tecnologie chimiche), nell’ambito del master post-universitario da me coordinato in «Nuove tecnologie per la comunicazione, il cultural management e la didattica della storia dell’arte».
Simili preziosissime occasioni di confronto serviranno a far capire a tutti noi – scienziati e umanisti – per quale via possa essere costruito il mondo di domani. Ma anche per interrogarci sul ruolo che dovrà avere l’umanista nella società del futuro, che sarà sempre di più dominata dall’innovazione tecnologica, dagli algoritmi, dall’intelligenza artificiale, dal marketing: a cosa serviranno gli archeologi e gli storici dell’arte quando a occuparsi di beni culturali, di reperti antichi, di monumenti artistici e di testi letterari saranno sempre di più gli scienziati, chimici, fisici, informatici, ingegneri e biologi, e quando a scrivere la storia dell’umanità saranno i genetisti piuttosto che i letterati?
Ebbene, occasioni come quella del 29 maggio scorso aiuteranno gli umanisti a porsi alcuni nuovi interrogativi, imparando ad ascoltare gli scienziati – certo! –, ma anche facendo loro sentire la propria voce. Rivolgendosi agli scienziati, gli umanisti impareranno a dar loro una direzione, affinché tanti progetti tecnologici innovativi, così stupefacenti e ammirevoli, vengano davvero messi al servizio della ricerca umanistica anziché ‘disumanizzarsi’, diciamo così, fino a perdere di vista quel valore irrinunciabile su cui dovrebbe trovare fondamento qualsivoglia progetto di società del futuro: il valore propriamente umanistico – appunto – della centralità dell’uomo rispetto al moderno panorama globalizzato e multimediale che, purtroppo, appare invece sempre più segnato dalla emarginazione dell’individuo, dove persino il principio di autodeterminazione individuale viene mortificato dalle logiche preminenti dell’innovazione dei sistemi produttivi e di mercato.
Cerco di spiegarmi. Lo storico dell’arte avrà il dovere di avvertire gli scienziati che l’abitudine alla fruizione digitale del patrimonio artistico proveniente dal passato sta producendo una mostruosa perdita di senso storico specialmente tra i più giovani, compromettendone gravemente le facoltà sensoriali, inibendo le capacità di percezione ‘aptica’, irrigidendo le facoltà di giudizio, rendendo tutti noi, alla fine, sempre più indisponibili verso modi di vedere e linguaggi diversi, ovvero verso punti di vista storicamente condizionati e distanti da noi. Una così grande fiducia, da parte di tutti noi, nella comunicazione digitale rischia altresì di compromettere la nostra capacità di pensare e – paradossalmente! – di comunicare, cioè di confrontarci tra di noi, di servirci delle parole stesse di cui la nostra lingua è immensamente ricca per esprimerci, anche quando proviamo a riferirci alle stesse opere d’arte – quelle vere! – non appena le vediamo, per parlarne, per dire cosa esse ci comunicano… Una tale fiducia negli strumenti di indagine innovativa del patrimonio artistico rischia dunque di inibire la nostra capacità di rapportarci – direttamente e ‘immediatamente’ – ai capolavori dell’arte e della letteratura provenienti dal nostro passato, rispetto ai quali i giovani di oggi si sentono sempre più smarriti e disorientati, ove non vengano loro stessi supportati dai dispositivi tecnologici della memoria virtuale, oppure dagli strumenti della visione artificiale che permettano loro di ‘vedere’, appunto, al di là di quello che i nostri occhi – limitatamente umani – sono capaci di vedere. Finiamo così per convincerci che i nostri nudi e poveri occhi non vedano più niente, che non sappiano giudicare alcunché senza l’aiuto delle più sofisticate apparecchiature tecnologiche, dato che grazie ad esse riusciamo a vedere tutto e meglio. In tal senso la fiducia così sfrenata che negli ultimi anni abbiamo nutrito nei confronti del progresso e dell’innovazione tecnologica ha prodotto un terrificante degrado umano, culturale, sociale.
Ebbene lo storico dell’arte avrà il dovere di ricordare a tutti, non solo agli scienziati, che per ‘vedere’ meglio le opere d’arte, per valorizzare davvero il patrimonio storico-artistico in seno alla moderna società multimediale e globalizzata, dovremmo tutti noi rieducarci alla visione: ma rieducarci alla visione non significa affidarci ancora di più ai supporti tecnologici, a questi sofisticatissimi strumenti che permettono di potenziare la nostra vista facendoci scrutare, in direzione di ciò che è immensamente piccolo, al di là della superficie visibile, dentro la infinita profondità della materia. Significa, piuttosto, imparare a chiudere i nostri occhi, per poter vedere meglio, dentro di noi, il mondo che ci circonda, il nostro stesso passato che vive nel presente, senza il quale noi non ci saremmo, né saremmo come siamo: e, dunque, per poter vedere le opere d’arte con tutto noi stessi. Rieducarci alla visione significa imparare a recuperare il valore del nostro sguardo interiore, limitato e storicamente condizionato, perché solo dopo aver ritrovato noi stessi impareremo a capire gli altri, a comprendere i linguaggi e i modi di vedere più diversi nonché, alla fine, a dare il giusto valore anche ai potentissimi strumenti che la tecnologia ci mette a disposizione. Solo così non rischieremo di diventare noi stessi strumento della tecnologia, sacrificando la nostra stessa umanità alle logiche produttive che sono profondamente, selvaggiamente antiumanistiche!
Rieducarci alla visione significa renderci conto che il nostro sguardo è e sarà sempre più potente di quello della macchina, proprio perché più ‘limitato’. E che la nostra fragilità ci rende di gran lunga più forti della macchina, perché nella nostra limitatezza appunto, nella nostra vulnerabilità, nella nostra inclinazione all’errore noi siamo infiniti.
Rieducarci alla visione significa riscoprire proprio la nostra infinita, immensa profondità di esseri umani. Significa ritrovare la nostra dignità. Significa recuperare una nostra memoria storica, minacciata da questa sconfinata fiducia nel futuro e nella rivoluzione tecnologica che, azzerando il passato, ci conduce nientemeno che a ritenere l’uomo stesso, ormai, come obsoleto, superato, antico.
Significa recuperare quello sguardo che sulle opere d’arte, lungo le epoche del passato, hanno saputo rivolgere gli uomini che ci hanno preceduti, capaci talvolta di vedere molto meglio di noi, dato che che i sofisticatissimi strumenti tecnologici di cui disponiamo impoveriscono paradossalmente la nostra capacità di ‘vedere’, mortificando il nostro stesso senso di libertà. Imparare a guardare le opere d’arte con gli occhi, per esempio, di Leonardo da Vinci, di Giorgio Vasari, di Johann Joachim Winckelmann significa capire quanto ci siamo oggi impoveriti. Quanto la nostra umanità si sia ridotta, grazie a questa meravigliosa rivoluzione digitale!
Ma attenzione: a proposito dei beni culturali e del patrimonio artistico, non ci sarà progetto tecnologico che possa davvero definirsi come ‘innovativo’, ove non si trovino attivamente coinvolti degli umanisti. Bisogna, insomma, che gli umanisti tornino a reggere il timone per evitare il baratro inesorabile nel quale la rivoluzione tecnologica sta facendoci precipitare.