Pierre-Jean Mariette, «Traité des pierre gravées» (1750)

Tavole a cura di Irene Santoro

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DAL TRATTSTO SULLE PIETRE INTAGLIATE (1750)
[INTRODUZIONE STORICA SULLE PIETRE INTAGLIATE DAL TRATTATO SULLE PIETRE INTAGLIATE (1750) DEL CABINET DU ROI][1]

[p. I] È assolutamente incontestabile che la collezione di pietre intagliate del re sia una delle più celebri e delle più complete che si trovino in possesso di alcun sovrano. Essa è, infatti, superiore a molte altre collezioni di questo genere, trovandovisi al suo interno pezzi rari, unici, che da soli basterebbero a rendere questo Cabinet tanto illustre e importante; ma, d’altra parte, vi si trovano intagli proprio di ogni tipo. Di cammei o rilievi, più perfetti e singolari gli uni degli altri, di pietre intagliate in rilievo, tanto apprezzate e istruttive quanto sono i cammei, se ne conservano in grandissimo numero, ed essi sono così diversificati che si potrebbe credere che l’assortimento ne sia stato fatto con l’intenzione di non lasciare sfuggire niente di tutto ciò che potesse contribuire al piacere degli occhi e alla ricreazione dello spirito.

In effetti, possiamo chiederci se la natura si sia mai ornata, in ciò che essa abbia prodotto, di colori più brillanti e più ricchi. E in quali altri oggetti d’arte si possono apprezzare figurazioni meglio trattate e più interessanti? E in quali si potrebbe mai trovare un così alto livello di perfezione esecutiva?

[p. II] Siamo curiosi di conoscere gli uomini illustri dell’antichità attraverso i loro ritratti, e le divinità attraverso i loro attributi? Trasportati nei bei giorni della Grecia antica, vogliamo farci una giusta idea della bellezza loro, frequentando un popolo dal gusto sicuro, delicato, puro, ed apprezzare i tratti distintivi che la caratterizzano? Un numero infinito di bei ritratti di uomini e donne, di giovani e vecchi, conservati in questa collezione, non aspetta altro che di essere consultato: questi ritratti parleranno e risponderanno esaurientemente a ogni nostra richiesta riguardante tanti diversi oggetti, anche quelli che sembrano oscuri. […] L’ingegno nostro troverà il modo di tenersi sempre in esercizio nell’interpretazione degli emblemi e delle allegorie più argute che si trovano raffigurate soltanto in questi oggetti; finanche i talismani, frivoli quanto si voglia, potranno lasciarci intravedere, attraverso il velo di mistero che li copre, delle verità sempre rispettabili e sempre apprezzabili, in qualsivoglia contesto esse si incontrino.

Se la collezione di pietre intagliate del re offre agli studiosi così tante possibilità per istruirsi, essa ne fornisce anche all’Amatore, a colui cioè che è più particolarmente attratto da ciò che attiene specificamente all’arte e che può suscitare non solo l’interesse, ma anche il godimento del fruitore; la collezione del re offre alla sua ammirazione le più svariate diversità o maniere che distinguono le opere dei principali artisti e che, dunque, permettono di stabilire i tempi e i luoghi nei quali queste opere dovettero essere realizzate. L’Amatore avrà il piacere di contemplare queste pietre intagliate, tutte scintillanti di spirito, alcune lavorate leggermente e quasi solo abbozzate, altre ammirevoli per la precisione e la loro grande finitezza; altre ancora, dove l’artefice non ha avuto timore di esser tradito dal suo strumento nella lunga e faticosa operazione che ha intrapreso, osando conferire [p. III] al proprio bassorilievo una arguzia che alla fine è tale da destare la meraviglia di chiunque sia in grado di apprezzare la difficoltà e la delicatezza di una simile operazione. Dopo l’iniziale meraviglia, egli dovrà soffermarsi con ancor più piacere sopra queste opere inimitabili, nelle quali figure poco rilevate e quasi piatte hanno acquistato, sotto le mani dei più abili artefici, una dolcezza che riesce a conferire alla scultura persino il senso del riposo, della soavità e di ogni possibile armonia. Egli potrà mettere a confronto l’arte incisoria greca e quella romana, e apprezzare il merito di ciascuna: lo stesso Cabinet du Roi gli offrirà qualche esempio della maniera di incidere degli Egiziani e degli Etruschi; vi sono anche opere di artisti che hanno vissuto negli ultimi secoli, e l’Amatore imparerà a riconoscerne il carattere.  In una parola, questo Cabinet è completo come meglio non potrebbe esserlo, in tutte le sue parti: è formato in modo che sia sufficiente a chiunque voglia fare uno studio sulle pietre intagliate; e chiunque sia già ben istruito potrà agevolmente verificare tutte le cognizioni delle quali si è imbevuto, osservando le stesse opere che gli faranno meglio comprendere il senso della giustezza e di ogni proporzione. Io stesso devo considerarmi fortunato se, dopo aver tentato di fissare alcuni elementi fondamentali per la conoscenza delle pietre intagliate, mi è stato permesso di servirmi di una collezione che contiene tante ricchezze e che mi ha fornito le prove di cui avevo bisogno, senza le quali io non avrei potuto sperare di farmi ascoltare né di persuadere alcuno.

Sebbene molto considerevole, questa collezione potrebbe esserlo di più, e senza dubbio nessun cabinet dello stesso genere potrebbe essere messo a confronto con essa, se tutte le pietre intagliate che sono state via via raccolte dai nostri re, a cominciare da Francesco I, vi si conservassero ancora. Questo illustre monarca, che ha meritato il titolo glorioso di Padre delle Lettere, era stato anche il protettore delle arti. Egli ricercò gli artisti che vi si distinsero e, se raccolse le belle opere che uscirono dalle loro mani, non dimostrò minor passione per le incisioni su pietra dura. Indicargli la via per entrare in possesso di qualche pietra rara e preziosa [p. IV] significava fargli la corte e ottenerne le grazie. Suoi agenti, attivi e intelligenti, venivano inviati in missione in tutte le parti d’Italia, e vi compravano a gran prezzo tutto ciò che loro giudicassero degno della curiosità del loro padrone: dipinti, statue, intagli antichi. E fece di più: chiamò dall’Italia, divenuta la culla delle arti nascenti, artisti di fama, perché lavorassero alla sua presenza e sotto i suoi stessi occhi; tra questi artisti erano degli incisori di pietre dure, che egli onorò del suo singolare favore. Seguendo l’esempio di Lorenzo il Magnifico, si dispose a gratificarli, e a far loro sentire gli effetti della sua generosità e della sua magnanimità. Talvolta, scendendo dal trono, egli discorreva con loro e si intratteneva di cose pertinenti all’arte con la stessa familiarità che ci si sarebbe potuti aspettare da una persona semplice.[2]
Il gusto del principe divenne quello della nazione intera, e il re Enrico II, che gli succedette, cercò di proseguire i programmi che il suo degno predecessore aveva incominciato ad avviare. La Francia si trovò presto piena di curiosi, e questi curiosi furono ciò che di più grande e distinto un regno avrebbe potuto sperare di accogliere. […]

La regina Caterina de’ Medici aveva contribuito non poco a esercitare questa generale emulazione. Apparteneva, d’altronde, a una famiglia che si era distinta in ogni tempo per il suo amore per le scienze e per le arti, e ad esse non era permesso di guardare con indifferenza: così non trascurò di instillare lo stesso amore ai principi suoi figli.

Carlo IX fu quello che parve rispondere al meglio ai di lei auspici: egli si mostrò difensore della cultura antica e, avendo deciso di dare una sistemazione adeguata a tutti gli oggetti che erano stati raccolti in precedenza e a quelli che lui stesso aveva raccolto, destinò un luogo particolare nel Louvre per sistemarli e conservarli, e subito dopo vi prepose un addetto alla cura delle antichità[3]. Ma preoccupazioni più gravi e pressanti presero il posto di queste, e la Francia si trovò sconvolta da disordini interni che provocarono molta rovina: perciò tutto ciò che era stato sistemato dentro questo nuovo Cabinet fu ben presto disperso e disparve, proprio subito dopo essere stato allestito. Le pietre intagliate, essendo più facili da trasportare, e più adatte a soddisfare il lusso e la cupidigia, furono le prime a esser portate via. Ne resta appena qualcuna, dopo che Enrico IV, iniziando a godere dei frutti della vittoria, avendo deciso di occuparsi del benessere dei suoi sudditi e impegnandosi a far rifiorire le scienze e le arti che la guerra sembrava avesse bandito dalla Francia, concepì un importante progetto, tanto per l’onore e l’utilità della sua nazione che per suo proprio diletto: ristabilire il Cabinet d’Antiquitè che i re suoi predecessori avevano intenzione di formare.

Gli giunse notizia di tale signor de Bagarris, gentiluomo provenzale, che gli fu segnalato come il più istruito e il più capace di mettere in atto quel progetto. Fece venire a corte, nel 1608, questo valente antiquario che, a Fontainebleau, ebbe un lungo colloquio con Sua Maestà riguardo all’utilità dello studio delle medaglie; il risultato fu che il re prese ad acquistare qualunque cosa Bagarris gli presentasse, così come faceva di tutte le altre sue antichità, fra le quali erano bellissime pietre intagliate che, unite a quelle del Cabinet du Roi e di Caterina de’ Medici, divennero la base di un nuovo Cabinet, che si cercò di rendere il più completo che fosse possibile, e che, per la comodità del re, fu sistemato nel castello di Fontainebleau dove era già la biblioteca reale. Il re prese quindi Bagarris al suo servizio, sotto il titolo di «Garde de ses Antiques» o, come gli piaceva farsi chiamare, di «Cimeliarca» di Sua Maestà.

Una morte crudele, che fu fatale al benessere della Francia, non permise a Enrico IV di portare a termine un progetto così lodevole e utile. All’inizio del regno di Luigi XIII, Bagarris volle abbandonare quel suo progetto. Si rivolse alla Regina reggente, che gli fece stampare nel 1611 quel resoconto che già Enrico IV gli aveva ordinato di redigere; ma queste iniziative non portarono a niente. Bagarris rendendosi conto di non riuscire a ottenere ciò che voleva [p. VI], ripartì per la Provenza con le sue pietre intagliate e il resto del suo Cabinet.

Si continuavano intanto a coniare, presso la Moneta di Parigi, bellissime medaglie. Al Louvre era ospitato un intagliatore di pietre dure, che lavorava sotto la protezione del re, Guillaume Dupré de Troyes, in Champagne; Jean Warin di Liegi, scultore e controllore generale delle matrici delle monete di Francia, Julien de Fontenay o Coldoré, Valletto di camera e incisore del re, si assicurarono, ciascuno con le loro opere meravigliose, una gloria immortale ed esaudirono gli auspici di Enrico IV restituendo grande onore all’incisione a incavo cosi come a quella a rilievo; ma il Cabinet du Louvre destinato alla conservazione delle Antichità del re versava ancora in un grande disordine e per lungo tempo non si rivolse la minima attenzione ad esso. La sua felice risistemazione fu dovuta a Luigi XIV, il cui regno deve essere ricordato per tutti gli avvenimenti gloriosi, di ogni tipo, che vi si verificarono. Ed ecco ciò che egli dispose.

Gaston-Jean-Baptiste de France, duca d’Orléans e zio del re, morì nel mese di febbraio 1660 e morendo pregò sua Maestà di ricevere il suo cabinet, composto di curiosità preziose che egli aveva raccolto con grandissimo diletto durante il suo soggiorno a Blois. Vi si trovava un gran numero di pietre intagliate, che da sole riempivano ventiquattro piccole scatole e portagioie. Il principe le aveva avute quasi tutte dal presidente di Mêmes, ma provenivano originariamente da Louis Chaduc consigliere dal tribunale di Rion, ed era una scelta di più di duemila oggetti che questo curioso aveva portato da un viaggio che aveva fatto in Italia.

Il regalo di Gaston fu accettato dal re, e tutte queste curiosità furono sistemate al Louvre. Non si poteva assegnare loro una sistemazione più conveniente, occupando così un luogo che era stato loro destinato da tempo: ma Colbert, al quale il re aveva affidato questo incarico e che aveva a cuore di perfezionare le scienze e le arti, credette che, per lavorarvi più efficacemente, bisognava ravvicinare ad esse le antichità della Biblioteca Reale; e in effetti niente sarebbe stato più comodo per [p. VII] gli studiosi, e niente sarebbe stato più adatto a favorire i loro studi. Egli dunque fece trasferire le medaglie, le pietre intagliate e le altre antichità nella stessa sede dove erano i libri e i manoscritti; e dopo aver assegnato il ruolo di custode a M. de Carcavy, gli affidò ugualmente la custodia di questo nuovo Cabinet.

L’anno 1664 si compilò un Etat des Pierre gravées de creux et de relief du Cabinet du Roi. In questo documento vediamo che, in base al progetto di incrementare questa collezione di pietre intagliate, si iniziò a farne comprare in grande quantità anche nei paesi stranieri. Vi si fa menzione di quelle del Cavalier Gualdi, che erano recentemente venute da Roma. M. de Monceaux fu inviato nel 1667 in Oriente per cercare manoscritti; lo si incaricò anche di cercare medaglie e pietre intagliate. Tutti coloro che intrapresero allora simili viaggi ricevettero ordini simili. In questo modo il numero di medaglie si moltiplico considerevolmente e in poco tempo: ma la difficoltà di trovare belle pietre intagliate, unita alla scarsa preparazione degli uomini incaricati di tali missioni, che preferivano non portar nulla piuttosto che correre il rischio di essere rimproverati di avere scelto male, fece sì che le collezioni rimanessero per molti anni all’incirca come erano al tempo del lascito di Gaston.

Tali collezioni cominciarono ad accrescersi davvero quando M. de Louvois, nominato Sovrintendente degli Edifici dopo la morte di Colbert, fece trasferire a Versailles per ordine del Re, nel 1684, le medaglie e le pietre intagliate. Furono sistemate in superbo Cabinet presso l’appartamento di Sua Maestà, e poiché il re manifestava sempre grande compiacimento ogni volta che gli si mostrava una parte di quelle pietre, si pensò seriamente di renderle sempre più numerose. Si comprarono le pietre intagliate di M. de Harlay, procuratore generale e poi primo presidente del parlamento di Parigi; si acquistarono quelle del signor Oursel, primo commesso di M. de la [p. VIII] Vrilliere, e quelle del signor Thomas Lecointe. Quest’ultimo prendeva il titolo di Antiquario del re. Ed è lo stesso che nel 1670 sistemò nella Biblioteca di Sainte-Geneviève le medaglie del Padovano.

Nello stesso tempo si incaricò M. Rainssant della custodia del Cabinet delle antichità di Versailles, dato che l’età molto avanzata di M. de Carcavy non gli permetteva più di lavorare come prima. Sotto questo nuovo custode, pieno di zelo nell’esercizio delle sue funzioni, le pietre intagliate del Cabinet du Roi si accrebbero ancora grazie a nuove e importanti acquisizioni. Molte chiese si curarono di donare a Sua Maestà pezzi singolari che, dispersi nell’immensità dei Tesori ecclesiastici, dove non erano decentemente valorizzati, non aspettavano altro che questo momento per uscirne; tanto più che le figurazioni di tematiche profana apparivano poco convenzionalmente insieme alle reliquie e agli altri arredi sacri: così il Cabinet du Roy offri loro asilo, per così dire, più conveniente e più sicuro. Persino gli stranieri vollero partecipare all’onore di arricchire questo Cabinet. M. Fesch, professore di diritto a Basilea, pregò il re di ricevere in dono una bellissima ametista incisa da Panphilo, che rappresentava, diceva lui, l’Apollo Attico o, secondo altri, Achille che suona la lira.

Ma nessuna di queste acquisizioni è paragonabile a quella di pietre intagliate appartenute a M. Lauthier d’Aix-en-Provence, formatasi sulla fine dell’ultimo secolo. Poche persone erano altrettanto esperte in materia; egli aveva imparato a suo tempo a conoscere tanti oggetti presso un maestro straordinario, M. de Peiresc, che aveva molta confidenza con lui, e di cui era stato successivamente agente e poi rivale quanto a curiosità. D’altronde, era dotato, per natura, di una buona attitudine per le arti. Non c’era dunque da temere che la collezione riuscisse male. Quando pure non vi si fosse trovata che la meravigliosa scena di Baccanale nota sotto il nome di Cachet [p. IX] di Michelangelo, ciò sarebbe stato più che sufficiente a rendere illustre il proprietario: questo solo pezzo valeva quanto tutto un Cabinet, e ne rendeva l’acquisizione indispensabile e infinitamente preziosa. Ma M. Lauthier possedeva ancora una quantità di altri pezzi importanti. Aveva acquisito l’eredità di M. de Peiresc, e – cosa davvero singolare – si ritrovarono tra le sue mani le stesse pietre intagliate che Enrico IV aveva avuto intenzione un tempo di comprare dal signor de Bagarris. Vi si ritrovava anche questo stesso Baccanale intagliato su un diaspro rosso, di cui Bagarris aveva una così grande stima, che, preferendolo a tutte le altre sue pietre antiche, era stato riprodotto nella stampa che orna il frontespizio del suo libro sull’utilità e sull’uso delle medaglie; inoltre la pretesa testa di Solone eccellentemente incisa da Dioscoride su un’ametista, quella di Milziade e quella di Marcello nipote di Augusto, il sardonico rappresentante una donna invasata e presa dalle sue operazioni magiche e, infine, il cosiddetto Cachet di Michelangelo: tutte queste ammirevoli pietre intagliate di cui Bagarris aveva fatto chiara menzione nel resoconto che aveva avuto l’onore di presentare a Enrico IV riapparirono luminosamente dentro questa collezione. […]

[p. X] Le pietre intagliate a incavo saranno le sole di cui metterò a parte il pubblico: adesso devo rendere conto dell’ordine che ho seguito nel pubblicarle qui. Di tutte quelle pietre che rappresentassero soggetti interessanti, non me ne è sfuggita una; ma siccome tra quelle che raffigurano teste ve ne ho trovato alcune ripetute, e perdipiù molte erano senza nome, o prive di attributi, ho evitato di rendere la trattazione pesante e fastidiosa, limitandomi a una scelta che permettesse di dare l’idea di un corpus abbastanza omogeneo. Non posso rimproverarmi niente, non avendo trascurato nulla per la perfezione delle [p. IX] tavole che devono rappresentare le stampe. Le ho fatte rifinire con grande cura a quei nostri abili maestri che pensavo i più adatti, ma non posso lasciare sotto silenzio il fatto di essermi notevolmente avvantaggiato grazie a M. Bouchardon, che si è offerto di condividere la gloria di quest’opera con me, e sebbene non avesse avuto alcun bisogno di aumentare la sua reputazione, ha voluto sacrificare una parte considerevole del suo tempo prezioso. L’amore che egli ha per queste belle produzioni antiche, l’amicizia di cui mi onora e la sua deferenza nei miei confronti giacché ho concepito la realizzazione di un’opera come questa, l’hanno convinto ad accettare l’incarico di disegnare con cura e con tutta la precisione di cui è stato capace, i soggetti e una parte delle teste: ed infatti sui suoi bei disegni le tavole sono state eseguite. In maniera eccezionale egli ha fatto rivivere la più arguta bellezza delle opere intagliate dell’antica Grecia: ed è capitato che alcune incisioni di buona invenzione, ma deboli per l’esecuzione, abbiano talvolta, oso dirlo, guadagnato grazie alle sue mani, sebbene io possa assicurare con la stessa verità che non ce ne sia nessuna dove egli non si sia mostrato estremamente fedele e che non si sia mai preso né licenza né libertà interpretativa. Le negligenze che ha lasciato sussistere e anche le incorrettezze che egli avrebbe potuto correggere serviranno a dimostrare quanto sia stato attento e scrupoloso nell’eseguire i disegni esatti, sui quali si possa far sicuro affidamento.

 

DAL TRATTATO SULLE PIETRE INTAGLIATE (1750)[4]
[SULLA DECADENZA MEDIEVALE]

Dopo che il Cristianesimo si impose sulle rovine del paganesimo, l’universo cambiò completamente il suo volto, ed uno spettacolo nuovo si presentò. Le antiche pratiche furono per la maggior parte abbandonate e si cessò di conseguenza di utilizzare le pietre intagliate in funzione dei riti per i quali esse erano state fino ad allora utilizzate. Il bisogno era tuttavia lo stesso: si continuò per molti secoli ad utilizzarle come sigilli. I sovrani che regnarono nel Basso Impero, tanto in Oriente che in Occidente, non abbandonarono affatto l’uso degli anelli[5] costantemente mantennero l’abitudine di apporre i sigilli sui loro diplomi. Qualche volta si servivano a questo scopo delle pietre intagliate; e poiché mancavano artisti che ne realizzassero di nuove, non si fece alcuna difficoltà ad utilizzarne di antiche. Il saggio Dom Jean Mabillon ha riportato nella sua Diplomatique una carta di re Pipino, il cui sigillo [p. 33] raffigura un Bacco Indiano; quello dell’Imperatore Carlo Magno mostrava, in alcuni casi, l’immagine di Giove Serapide; molti dei nostri re hanno ugualmente utilizzato allo stesso scopo diverse pietre intagliate riconosciute come antiche, appartenenti a un’età molto precedente a quella dei principi che li avevano presi per loro sigillo. Tuttavia la barbarie inondò l’Europa; al di fuori del clero, si trovava a stento qualcuno che sapesse scrivere il proprio nome. I nobili si contentavano di usare un sigillo grossolano, per apporlo sui loro documenti, e si cessò di sigillare con pietre intagliate; tanto meno esse erano usate come gioielli, dato che non si era più in grado di comprenderne il prezzo. Le pietre si dispersero. Molte ritornarono nel seno della terra, per riapparire in secoli più propizi e più degni di possederle. Altre furono adoperate per ornare le casse e diverse opere di oreficeria utilizzate nelle chiese. Infatti il gusto dominante imponeva di spendere grandi risorse nella realizzazione di reliquiari e di ricchi ornamenti delle chiese. Molti di questi antichi intagli, di valore inestimabile, e molti di questi preziosi cammei che gli imperatori d’Oriente avevano importato da Roma, non uscirono dal luogo dove erano stati trasferiti e non ritornarono in Occidente che per venirvi a occupare gli spazi più onorevoli dentro le cappelle insieme alle Sante Reliquie. I Veneziani ne riempirono il famoso Tesoro della Chiesa di San Marco, i Francesi ne portarono molte in Francia durante le Crociate. Se bisogna dar credito a un’antica tradizione, l’Agata della Sainte-Chapelle di Parigi fu presa dal Tesoro degli Imperatori a Costantinopoli. San Luigi, che ne fece l’acquisto, la ricevette come fosse un oggetto devozionale, e in seguito Carlo V, sempre imbevuto dello stesso pregiudizio, la mise nella cappella annessa al proprio Palazzo[6]. Dopo molto tempo la bella testa di Giulia figlia di Tito e molte incisioni rappresentanti temi profani finirono confuse tra le reliquie del Tesoro dell’Abbazia di Saint-[p. 34|Denis. Alcuni dei più singolari cammei che si conservano presso i re sono stati trovati nelle chiese della Francia, e non dubito per niente che se si facesse una ricerca accurata, se ne troverebbero molte altre.

Non mi propongo certo di perdonare una così grande ignoranza; tuttavia si deve a tanto difetto di conoscenza la conservazione di un’infinità di preziosi oggetti di scultura antica, che altrimenti avrebbero corso il rischio di non arrivare fino ai nostri giorni. Infatti se coloro che vivevano in quei secoli di barbarie fossero stati più accorti, lo stesso zelo di religione che li spingeva a ricercare indistintamente ogni sorta di pietra intagliata, per ornarne senza criterio i nostri altari e le reliquie dei santi, li avrebbe indotti a rigettare quegli oggetti che avessero avuto rapporti col paganesimo e li avrebbe forse indotti a distruggerli.

Comprendiamo quanto grande sia stata questa perdita quando riflettiamo sull’utilità che potevano avere le pietre intagliate. Lascio al poeta Marbode la cura di rispolverare le incredibili convinzioni degli antichi sulle proprietà e sulle virtù occulte delle pietre. Non mi soffermerò nemmeno a osservare il prezzo e la bellezza dei materiali. La luminosità e la diversità dei colori hanno invero qualcosa di molto seducente; ma questo piacere non è che per gli occhi, e non deve affatto entrare in parallelo col piacere che allo spirito è in grado di assicurare il lavoro spettante all’arte. Guardando le pietre intagliate nulla si trova che non possa sedurre l’uomo che ama vantarsi di aver elevazione, gusto e sentimento insieme. È fortunato colui che è in grado di apprezzare questi preziosi resti dell’antichità con una tale disposizione: essi saranno per lui fonte di un’infinità di conoscenze, perfezioneranno il suo gusto e, senza che lui se ne accorga, la sua immaginazione si nutrirà di idee nobilissime e magnifiche. Proprio queste cose pensava Andrea Sacchi, famoso pittore, che si fece ammirare a Roma per l’eccellenza delle sue opere e per giustezza dei suoi pensieri[7]. Egli non cessava di raccomandarsi a coloro che praticavano sotto la sua guida lo studio [p. 35] appassionato di questi rari capolavori. E citava Raffaello, Michelangelo, Giulio Romano, Polidoro da Caravaggio e i Carracci i quali non avevano affatto pensato che fosse riduttivo per la loro grandezza studiare tanti oggetti provenienti dalla più colta antichità.

Egli avrebbe potuto osservare che Annibale Carracci ha ricavato da due antiche pietre intagliate le idee di due delle sue più belle pitture nel camerino di Palazzo Farnese a Roma. L’Ercole che sorregge il cielo è imitazione di un intaglio antico che si conserva presso il re di Francia. Lo stesso eroe che si riposa dalle sue fatiche non è molto diverso da come lo si vede su una cornalina che apparteneva a Fulvio Orsini[8] e che io ho avuto modo di ammirare presso M. Crozat. È esattamente lo stesso soggetto, la stessa composizione, la stessa intenzione nella figura. Annibale ne ha ripreso finanche l’ammirevole iscrizione che vi si legge, che un uomo erudito[9], versatissimo nella conoscenza della lingua greca, giudicava essere anteriore a Platone. […]

Fu ancora Andrea Sacchi che, sempre convinto della grande utilità che per i pittori e gli scultori poteva avere lo studio delle pietre intagliate, persuase Leonardo Agostini suo amico a far disegnare e incidere per mano di Galestruzzi le più belle pietre che si trovassero allora a Roma, per formare una raccolta il cui progetto, insieme alla realizzazione, sono oggi universalmente apprezzati. Aggiungerò alla testimonianza di questo grand’uomo quella di un artista illustre, uno dei miei amici[10], su cui si può far affidamento: mi ha confidato di non aver mai considerato le pietre incise senza ricavarne gran profitto, e che disegnando quelle del Cabinet du Roi aveva provato proprio lo stesso piacere di quando si trovava a Roma a disegnare le statue ei bassorilievi antichi. […]

[p. 36] Senza uscire dal Cabinet du Roi, è possibile ammirare sulle cornaline la statua dell’Ercole Farnese, uno [p. 37] dei cavalli di Montecavallo e il gruppo del Laocoonte; è dunque probabile che un gran numero di questi eccellenti capolavori della scultura, così celebrati, che il tempo ha distrutto, si trovino ancora ugualmente illustrati sulle pietre intagliate. […]

[p. 39] D’altronde è solo una mia congettura, alla quale però è difficile non dar credito, quando dico che gli antichi, seguiti in questo dai moderni, hanno sempre dimostrato grande interesse nel copiare le opere d’arte meritevoli di universale ammirazione. Le statue ne fornivano tanti esempi. Quante copie antiche si trovano, infatti, della Venere de’ Medici, dell’Ercole Farnese, dell’Ermafrodito, dell’Antinoo, del Centauro cavalcato dall’Amore e di tante altre. Il Nilo del Belvedere non è altro, sicuramente, che una copia di quello in pietra di basalto che Vespasiano aveva consacrato nel tempio della Pace. […]

[p. 49] In effetti, capita troppo spesso che gli eruditi, poco sensibili alle bellezze dell’arte, non vi cerchino che dell’erudizione, mentre invece quelli che le guardano con occhi di artisti, vi ammirano l’eccellenza [p. 50] dell’esecuzione, senza interessarsi a ciò che riguarda l’intelligenza del tema e della storia. Così il piacere non è mai completo […].

[p. 51] Sotto i regni di Francesco I e di Enrico II, che per sempre resteranno memorabili per aver aperto regno alle belle arti e per averle accolte, si contava un numero considerevole di cabinet d’antichità, tanto a Parigi che nelle provincie[11]. Questi cabinet si sono poi moltiplicati e le loro ricchezze si sono accresciute; e se pure non vi si vedono molte statue, bassorilievi e altri grandi esemplari di scultura antica come se ne vedono in Italia, possiamo almeno vantarci di possedere una grandissima quantità di pietre intagliate di singolare bellezza. Esse sono state portate in gran parte dalle nostre provincie meridionali, soprattutto dalla Provenza, che è stata in ogni tempo piena di abili antiquari. Senza dire dei monumenti che i Romani vi hanno lasciato, durante la lunga dominazione che vi fecero; la vicinanza dell’Italia e soprattutto il commercio che gli abitanti di questa provincia hanno intrattenuto con l’Oriente, hanno fatto sì che vi arrivasse quotidianamente un’enorme quantità di medaglie rare, di pietre lavorate e di altri oggetti antichi, che attraggono l’attenzione dei curiosi e ne fanno nascere di nuovi. Dobbiamo a Rascas signore di Bagarris, custode del cabinet delle antichità del re sotto Enrico IV e Luigi XIII, all’illustre M. de Peiresc, al signore Lauthier e a molti altri antiquari di provincia le più belle pietre antiche che ornano i nostri più importanti cabinet.

 

DAL TRATTATO SULLE PIETRE INTAGLIATE (1750)
[SULLA RIPRESA RINASCIMENTALE][12]

[…] La caduta dell’Impero Romano comportò pure quella delle belle arti, che furono per lungo tempo trascurate, o almeno furono esercitate da artisti che non conoscevano altro che gli aspetti tecnici, più semplicemente meccanici, del loro mestiere. Le buone arti non si risollevarono che verso la metà del XV secolo. La pittura e la scultura, che non vanno mai l’una senza l’altra, recuperarono allora in Italia il loro antico splendore e allora si ricominciò a incidere con gusto tanto in cavo che a rilievo. Il famoso Lorenzo de’ Medici, soprannominato il Magnifico e Padre delle Lettere, fu il principale e il più fervente promotore di rinnovamento dell’arte dell’incisione delle pietre dure. Dato che egli nutriva un singolare amore per tutto ciò che fosse testimonianza della cultura antica, oltre che per gli antichi manoscritti, per i bronzi e i marmi, aveva formato una preziosa raccolta di pietre intagliate che aveva fatto portare dalla Grecia e dall’Asia, o che aveva raccolto nel proprio paese. La [p. 76] vista queste belle cose che possedeva tanto per il proprio godimento quanto per il piacere di renderne gli altri partecipi, stimolò alcuni artisti che si dedicarono all’arte dell’incisione. Lui stesso, per innescare l’emulazione tra gli artisti, fece loro conoscere tante sue opere. Il nome di questo grand’uomo si può ancora leggere su numerose pietre che fece scolpire, o che gli appartennero.  […]

Allora operò a Firenze Giovanni nominato delle Corniuole, giacché riusciva a incidere a incavo le cornaline; a Milano operò Domenico detto de’ Cammei, per via dei bellissimi cammei da lui realizzati. Questi abili artisti formarono degli allievi e presto ebbero una grande quantità di imitatori. Vasari ne nomina molti, tra i quali mi limito a ricordare quelli che hanno meritato la massima reputazione: Giovanni Bernardi da Castel Bolognese, Matteo del Nassaro (quest’ultimo passò la gran parte della sua vita in Francia, al servizio di Francesco I), Gian Giacomo Caraglio di Verona, che è riuscito anche nella produzione di stampe cartacee, Valerio Belli di Vicenza, meglio noto sotto il nome di Valerio Vicentino, Luigi Anichini e Alessandro Cesari soprannominato il Greco. […] I curiosi conservano nei loro cabinet opere di questi moderni artisti, e non è senza ragione che ne ammirano la bellezza esecutiva. Ma non vi si apprezzi solo quella loro finezza nella scelta dei temi, o solo quella loro estrema precisione nel disegno, le quali cose, certo, contribuiscono a rendere un’idea della Bellezza nell’antichità. Quasi tutti questi artisti hanno meritato lo stesso rimprovero dei Romani: non hanno abbastanza consultato la Natura; e se si tratta di un difetto in molti di loro, quello di non aver avuto il talento dell’invenzione, essi avrebbero avuto di cercare rimediare nella pratica del disegno. Sarebbe stato l’unico modo per elevarsi al di sopra del livello di semplici copisti su cui si sono sempre [p. 77] fermati; infatti se si fa eccezione per i ritratti che hanno potuto modellare loro stessi dal vero, non si vede cosa abbiano prodotto che si possa assolutamente attribuire a loro. Di cosa solitamente si occupavano? Di moltiplicare il numero delle copie gli intagli antichi, e di preparare, dunque, i curiosi a troppo frequenti occasioni di dispute e di malintesi. Altre volte essi ricavavano i temi delle loro incisioni dalle medaglie antiche, oppure si servivano di disegni oppure di dipinti di pittori moderni, scegliendo quelli che erano i meglio adatti alla trasposizione, aggiungendo un certo loro gusto all’opera quando questa ne era priva, dopo averla ridotta nella forma e nella grandezza convenienti.

È, come pare, ciò che aveva fatto Valerio Vicentino, che tanto era geloso della propria reputazione, contribuendo a formare questa ampia collezione di disegni di grandi maestri, di dipinti, di stampe e sculture di cui si nutriva il suo gusto e di cui sapeva a ogni occasione servirsi[13]. Lui, come la maggior parte degli altri incisori suoi contemporanei, non credendosi sufficientemente dotato di genio per dare vita a composizioni usando le proprie personali risorse, non poteva fare altrimenti: ma poi cosa è successo? Che dei cattivi curiosi, che non apprezzano se non le cose rare oppure attribuibili solo a grandi nomi, hanno voluto far credere che i più begli intagli moderni fossero in realtà prodotti antichi; e siccome si trovavano stampe incise sotto il nome di Raffaello o eseguite sulla base di suoi disegni, e poiché queste stampe dimostravano ciò che costoro intendevano dimostrare, hanno voluto insinuare che Raffaello fosse un plagiatore, piuttosto che dare alle pietre intagliate il loro giusto valore. E sono arrivati ​​a diffondere il pregiudizio che Raffaello avesse ricavato molte delle sue composizioni dalle pietre antiche, senza farvi minimi cambiamenti; mentre altri, più temerari ancora, hanno osato credere che talvolta Raffaello avesse copiato dei bassorilievi antichi, della cui invenzione si era appropriato, e che per meglio coprire le sue magagne aveva poi ancora gli oggetti di cui si era servito.

[p. 78] La stampa col Giudizio di Paride e quella di Nettuno che placa la tempesta, l’una e l’altra intagliate da Marcantonio Raimondi, hanno potuto fornire il pretesto di un simile rimprovero, seppure assai poco fondato. Infatti questi temi sono stati composti secondo il gusto dei bassorilievi, ma questa non è affatto una prova per ritenere che Raffaello avesse copiato quelle incisioni dai bassorilievi. Raffaello li avrebbe distrutti? Ma dirlo è troppo avventato: gli sarebbe stato facile farli sparire, a Roma, dalla vista di Michelangelo e di tanti altri rivali che di certo non avrebbero mancato di protestare, piuttosto che di serbare un silenzio così profondo? Dico di più: chiunque abbia osservato queste composizioni con occhi intelligenti, dovrà convenire che la maniera di Raffaello vi predomina. Posso dire quel che penso?  Mi sono convinto che Raffaello giocasse sul fatto di rendere nei suoi disegni l’effetto delle pitture antiche, come per esempio quelle degli Amori di Alessandro e di Rossane ad di Aetion, di Ercole Gallico, e la Calunnia di Apelle, basandosi sulle sole descrizioni di questi dipinti che egli aveva letto in Luciano[14]: li aveva voluti imitare in altri suoi disegni, imitando composizioni di bassorilievi secondo il gusto antico, e ciò mostrare che il suo genio immenso fosse adatto e capace di tutto.

Azzardo ancora un’altra delle mie idee.  Mi è parso che Raffaello si compiacesse di trattare temi già trattati da altri grandi artisti, specialmente quelli che erano stati di grande successo. Credo di vedere nella stampa dell’Ultima Cena intagliata da Marcantonio Raimondi una imitazione dello stesso soggetto dipinto da Leonardo da Vinci a Milano. Trovo [p. 79] la stessa disposizione, le stesse movenze delle figure. Esiste una bellissima stampa di Cristo portato al sepolcro inventata da Andrea Mantegna: lo stesso soggetto dipinto da Raffaello per Atalanta Baglione non è forse una rimeditazione abbastanza fedele dell’opera di Mantegna?  Si direbbe con questo che Raffaello è stato un mero copista di questi due famosi maestri? No di certo! E più naturale e conveniente pensare che questo grande maestro fosse consapevole della propria superiorità, e avesse voluto dar prova della propria capacità di migliorare e superare le opere degli altri, e in particolare di coloro che valevano di più. È proprio in questo che egli è riuscito, ogni volta che ha voluto farne esperienza.

Ritorno a coloro che rimproverano Raffaello di aver tratto profitto imitando opere degli Antichi: i loro discorsi fanno meno torto alla memoria del principe della pittura che al giudizio di quelli che li mettono in giro. Tuttavia si trovano molti che incorrono in questo pregiudizio. [..] Ma si può parlare di furto? Forse si accusa Michelangelo di aver copiato nel proprio cosiddetto Cachet questo gruppo di due donne, una delle quali riempie un canestro sulla testa della compagna, per dipingerle poi sul soffitto della Cappella Sistina in Vaticano, una Giuditta che esce dalla tenda di Oloferne con la sua serva (esiste una stampa di questa scena, intagliata da Giulio Bonasone)? È lecito a uomini di tale grandezza aiutarsi guardando all’antico: non si tratta di copiare; si tratta di qualcosa di più che di una semplice traduzione, se posso usare questo termine.  Si tratta di derivare un’idea feconda, per conferire ad essa un senso nuovo e più vivo che nell’originale. […]

[p.  93] Grazie alla collezione di pietre intagliate, che non richiede grandi spese e che può essere facilmente trasportata, diventa agevole conoscere il Bello. E che risultati bisogna attendersi da un simile studio? Seppure siamo per natura dotati di un giusto senso, non possiamo pretendere di diventare buoni conoscitori se non prendiamo familiarità con le opere sulle quali in definitiva dobbiamo formulare il nostro giudizio. È necessario averle esaminate per lungo tempo, aver messo a confronto il bello col mediocre, e aver ancora messo a confronto il bello con ciò che è ancora più perfetto, per [p.  94] poterci mettere in grado di decidere con ravvedimento e precisione. Questo metodo di comparazione facilita il lavoro, perché fornisce la necessaria esperienza: dopo di che basta solo che i propri occhi siano guidati dal gusto, per saper distinguere le maniere e la qualità esecutiva dell’originale rispetto a quella del copista, e capire se l’oggetto è stato ben disegnato oppure no, e se le figure hanno la loro giusta proporzione oppure no.

Su questi solidi principi si può, credo, stabilire ogni regola della conoscenza; e per questo io preferisco confrontarmi con un abile artista piuttosto che con un curioso, tutte le volte che servirà pronunciarsi sul pregio di un’opera. Il primo ha fatto degli studi che all’amatore non sono richiesti: egli è in grado di rende ragione del proprio giudizio, e se esprime alcune critiche saprà mostrare in concreto cosa serviva per non incorrere in simili critiche; se esprime apprezzamenti positivi, non lo farà certo a caso. Chi non ha avuto modo di esercitarsi nella pratica del disegno, deve almeno curarsi di formarsi il proprio gusto attraverso l’assidua osservazione delle belle cose. Ancora una volta non si impara a conoscerle solo vedendole. Una persona che non abbia avuto modo per tutta la sua vita di vedere altro che delle Bambiocciate[15] non potrà apprezzare la purezza delle opere di Raffaello.

Tuttavia mancherà sempre qualcosa anche a colui che non si fosse preso cura di conoscere niente altro che la maniera di Raffaello, perché, per quanto essa sia grandiosa, non potrà rivelarsi in tutta la sua sublime altezza che a coloro che si siano potuti fare un’idea di tutte le altre maniere.

La capacità di distinzione le maniere richiede studio, e non è necessaria solo agli Amatori che di solito tendono ad apprezzare le opere dovute artisti di fama. É utile all’uomo di gusto che può ricavarne molto profitto e [p.  95] grande illuminazione. Non dico che si debba accettare l’abuso che di tali profitti qualcuno fa: ma non credo, come la maggior parte degli intenditori d’arte, che ci si debba contentare ad ammirare ciò che è bello senza preoccuparsi di sapere chi ne è stato l’autore. Trovo al contrario che ci possa essere grande diletto nello stabilire a quale genere oppure a quale artista appartenga un oggetto, e apprezzo molto questo genere di conoscenza purché non sia portata al di là dei giusti limiti e vi si proceda con saggezza. […]

[1] Mariette 1750, tomo I, pp. I-IX. La traduzione è nostra.

[2] Cellini, Trattato sopra l’Orificeria, c. 3, p. 29.

[3] Préface du Catalogue des Livres de la Biblioteque du Roi

[4] Mariette 1750, tomo I, pp. 32-51. La traduzione è nostra.

[5] È stato ritrovato nella tomba di Re Childerico I, la cui scoperta si e fatta Tournai nel 1653, l’anello d’oro che gli serviva da sigillo e sul quale è inciso il ritratto di questo principe e il suo nome CHILDERICI REGIS. Questo anello e altri ornamento d’oro trovati nello stesso luogo si trovano nella biblioteca del re.

[6] Gassendi in Vita Peirescii, 1. 3, p. 288

[7] Leonardo Agostini, nell’introduzione del libro Gemme antiche figurate.

[8] J. Fabri, Comment. in imag. Vir. Illustr. Fulv. Ursin. P.43. Questa cornalina si trovava illustrata nel primo volume del Recueil di M. de Gravelle, tav. XL.

[9] Monsieur Capperonnier, in una lettera scritta sull’argomento a M. Crozat

[10] M. Bouchardon, scultore ordinario del Re

[11] Si legge nel libro intitolato De la nécessité de l’usages des Médailles dans les Monnoies di Bagarris, «che nel 1560 furono censiti in Francia più di duecento rari cabinet di medaglie, la maggior parte dei quali appartenenti a re, regine principi e gran signori, sono stati dispersi durante le guerre». Si potrebbe pensare che ci sia esagerazione in questa testimonianza, se non ne trovassimo conferma in una lista che Hubert Goltzius ha fatto stampare all’inizio della sua prima opera sulle medaglie intitolata J. Caius Caesar, che contiene i nomi di più di duecento curiosi d’antichità che egli aveva conosciuto nel suo viaggio fatto in Francia in quel periodo.

[12] Mariette 1750, I, pp. 75-95. La traduzione è nostra.

[13] Vasari, Vite de’ Pittori, p. 295, edizione di Bologna.

[14] M. Crozat possedeva questi disegni di Raffaello, e li ha fatti incidere nel suo Recueil d’Estampes. Quelli degli Amori di Alessandro e Rossane, dove le figure sono nude, e quell’altro dove le figure sono drappeggiate (Raffaello infatti ne ha fatte due versioni), sono attualmente nelle mie mani e li conservo accuratamente. Lodovico Dolce ha fatto una volta una bella descrizione di questo ultimo disegno, nel suo eccellente Dialogo sulla pittura intitolato l’Aretino, e ha osservato che Raffaello era così perfettamente entrato nello spirito del soggetto e ne aveva così felicemente reso tutte le circostanze che, se non sapessimo quando Luciano visse, potrebbe venirci il dubbio se non sia stato il pittore moderno a prendere la sua idea dall’autore greco oppure se non sia stato questo ad avere sotto gli occhi, mentre descriveva, una pittura di invenzione di Raffaello (Dolce, Dial. Della Pittura, in Venezia, 1557, p. 47).

[15] Pierre Van-Laer, pittore olandese, nato all’inizio del secolo scorso, ha prodotto per primo quadri i cui soggetti, presi dall’osservazione delle azioni del popolo più basso contenevano figure ignobili e mal vestite: la qual cosa fece sì che l’autore fosse dagli italiani chiamato Bamboccio, che significa nella loro lingua uomo di cattivo aspetto e di bassa statura, e che le sue opere fossero chiamate Bambocciate, termine da cui deriva il nostro Bambociade, divenuto comune  per designare quel tipo di soggetti che, comunque si pensi, hanno fatto più male che bene alla pittura. Sarei tentato dire lo stesso di tutti questi piccoli quadri fiamminghi che, perfettamente ben dipinti, non rappresentano altro, per così dire, che niente, e che nondimeno hanno invaso le collezioni scalzando le grandi opere che, seppure meno dilettevoli alla minuta osservazione, parlano allo spirito, e ciò è davvero importante.

Bibliografia

C. Occhipinti, Percorsi settecenteschi nella cultura figurativa europea, II, Piranesi, Mariette, Algarotti, Roma, UniversItalia, 2013

C. Occhipinti, Percorsi di storia artistica e storiografia. Roma, l’Italia e l’Europa tra il Seicento e il Settecento, Roma, Carossi, 2021.